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LA STORIA

Secondo lo storico Gianbattista Masciotta, il nome originario di Matrice doveva essere “MATER” o “MATRIX”, cioè “MADRE” MATRICE = MADRE nel senso di “Città Matrice” cioè “città capoluogo” e, da ciò, si potrebbe desumere che, anticamente, Matrice sia stato a capo di qualche unione feudale. Matrice è detta “Matricium” nel diploma di concessione del 1450; “Matricis” in quello del 1495; “Amatriciis” nell’istromento di translazione fra le sorelle di Capua del 1530. Altri sostengono che, in seguito al terremoto del 1456, che distrusse gli agglomerati di case di Vicenne e Casale, gli abitanti superstiti si trasferirono in contrada Castello, dove trovarono aiuto, rifugio e comprensione e formarono un unico popolo, unito e compatto, che traeva, dal lavoro e dalla preghiera, la forza e la volontà per lottare e continuare a vivere. Quindi, questa caratteristica di generosa accoglienza, come una vera “Madre”, potrebbe aver dato origine al nome di “Matrice”. (etimologia, però, non avvalorata da sicure motivazioni storiche). L’origine dei primi abitanti di Matrice affonda le radici nell’antica popolazione dei Sanniti (secolo IV a.C.). I Sanniti erano soprattutto un popolo di pastori e di agricoltori, altamente fieri e gelosi della propria indipendenza. Attaccati dai Romani, resistettero per anni, ma, nel 305 a.C. furono sconfitti; acconsentirono, però, a diventare parte della Repubblica Romana, dati i notevoli vantaggi che ciò poteva procurare loro. Ai Sanniti fu anche accordata una larga autonomia, con poche limitazioni: il divieto di impegnarsi in guerra, senza il consenso romano e l’obbligo di amministrare la giustizia al modo romano. Anche a Matrice si sentì l’influenza romana; si pensa che, anticamente, nei dintorni di Santa Maria della Strada, presso Colle Melaino, sorgesse un agglomerato di case rurali chiamato “Vicenne". A testimonianza di questo, nella strada che da Santa Maria della Strada porta a Petrella, sono stati rinvenuti resti di case (Le ricorrenze “vicennali” erano i giochi, le feste che si rinnovavano ogni 20 anni; erano i sacrifici e i giochi ordinati dal Senato Romano, per domandare agli dei la conservazione e la salute degli imperatori, nel ventesimo anno di regno). La maggior parte degli abitanti di Matrice era dedita all’agricoltura e alla pastorizia, ma tutto era arretrato e si conduceva una vita di fatiche e di stenti; all’alba, a dorso di un mulo, di un asino o a piedi, con i rudimentali attrezzi da lavoro, i contadini matriciani raggiungevano il podere, dove rimanevano fino a sera o per più giorni, se il podere era troppo lontano, dormendo nei casolari (masserie) o in capanne di paglia, canne e fango (pagliai).
Chi non aveva un proprio podere, offriva il lavoro delle braccia (braccianti). C’era qualcuno più fortunato che risuolava le scarpe o chi faceva il manovale o il muratore, il ramaio, il ferraio, ma tutti erano accomunati da una condizione di notevole povertà, che si traduceva in condizioni di vita estremamente precarie. Dopo l’unificazione del Regno (1861) si rese, anche a Matrice, obbligatoria l’istruzione scolastica, per almeno qualche anno, per sottrarre gli allievi all’analfabetismo. Gli insegnanti, per farsi capire dagli alunni, usavano ancora il dialetto. In Italia c’erano stati i moti rivoluzionari, le guerre d’indipendenza, l’unificazione del Regno, la rivoluzione industriale, ma la scintilla del progresso non aveva toccato Matrice. A causa delle condizioni economiche disperate, i matriciani, come tanti altri, verso la fine del 1800, cercarono fortuna emigrando, soprattutto nelle Americhe, dove il lavoro era molto richiesto; sia nell’America del Nord, che stava iniziando la sua industrializzazione e aveva bisogno di braccia, ma anche nell’America Latina, dove l’agricoltura era in espansione. L’emigrazione poi divenne più intensa nel primo quindicennio del Novecento e influì positivamente, perché, producendo una diminuzione della manodopera, riuscì a far lievitare i salari dei contadini o dei braccianti rimasti e, in seguito, gli emigranti fecero pervenire ai loro famigliari, rimasti a Matrice, somme di denaro, che servirono sia a saldare i debiti fatti per pagare il viaggio in America, sia per migliorare le condizioni di vita, che per apportare innovazioni anche in campagna. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i matriciani emigrarono ancora ma questa volta verso il Nord Europa (Francia, Belgio, Germania e Inghilterra) e negli anni Sessanta, iniziò un’emigrazione verso la Lombardia e, precisamente, verso la Provincia di Varese, dove, ancora oggi, risiedono tantissime famiglie di Matrice. Oggi Matrice è un centro con poco più di 1000 abitanti. Un'ultima curiosità: Matrice Borgo dei proverbi. Infatti dinanzi le attività della strada principale troverete delle cornici con proverbi locali.
 
 
 
LUOGHI DA VISITARE
 
Santa Maria della Strada
La chiesa, del XII secolo, presenta il prospetto a salienti, la divisione interna in tre navate con relative absidi, la copertura del tetto a capriata in vista,con la pianta quadrata della torre campanaria sul lato destro separata dal corpo di fabbrica. Tali elementi di carattere generale e comuni ad altre chiese molisane romaniche concorrono a determinare lo stile. La facciata principale presenta conci ben squadrati, le divisioni spaziali determinate da ampie arcate, formano portali ciechi e si scaricano su lesene ai lati del portale principale, il quale è incorniciato da uno pseudo-protiro schiacciato. Al di sopra di questo, e leggermente rientrante rispetto alla facciata, è il rosone composto da un foro centrale da cui si diramano pilastrini con capitelli, intramezzati da dodici fori, simboleggianti forse i dodici apostoli. E' fiancheggiato da due buoi protesi nel vuoto, simbolo di forza e di pazienza nel lavoro di evangelizzazione, ed è sormontato da un'aquila poggiata su una mensolina, poggiante con gli artigli su tre teste umane a significare probabilmente Cristo che porta in cielo le anime e la resurrezione dell'anima. Sulle pareti laterali, poi, una serie di archetti pensili ricorrenti e un portale secondario aperto a sud interrompono la monotonia della nuda pietra. All'interno, la divisione è determinata da colonne - dalle basi a forma di quadrato, di esagono, di ottagono, di dodecagono - con archi a tutto sesto di uguale luce, motivo per cui risultano in perfetta corrispondenza tra loro e danno luogo ad una pianta regolare a tre navate con tre absidi. Le lesene delle arcate cieche sono di manifattura pisana e la decorazione è di stile lombardo, quindi vi è un'armonia ritmica dovuta dal il motivo delle mensoline che si ritrova, capovolto, sia nella modanatura del podio sia alle basi dei pilastri del protiro, dalle rosette, incise ad ornamento di sostegno interno e di una modanatura del portale maggiore, e dallo schema del rosone che ripete e completa quello della lunetta centrale. Questo, infatti, con i dodici assi che s'irradiano da un oculo sino a raggiungere la cornice periferica, offre l'immagine di una ruota. I capitelli si incorniciano di foglie lunghe in ordine unico, doppio o triplo, ora strette, ora larghe, ora rigide, ora leggermente curve, aderenti al capitello e tutte fortemente incavate ed incise, sormontate quasi sempre da listelli, gusci, tondini variamente combinati tra loro o da piccole foglie attaccate ad uno stelo, che serpeggia sul piano di fondo con un movimento più o meno dolce. Sulla quarta colonna a destra entrando si trova la citata decorazione a rosette, raccolte in un intreccio di linee curve, comune a quella dell'ultimo arco del portale principale. Lo scultore tende a frangere la luce, alternandola con ombre profonde di vago sapore musulmano, per ottenere effetti chiaroscurali. Nelle sculture dello pseudo-protiro e delle lunette, invece, egli cerca di raggiungere un certo effetto plastico, non con la consistenza volumetrica, ma con un maggiore contrasto, con una precisa determinazione formale, con un accenno di trapasso di piani. All'interno della chiesa si trova una caratteristica acquasantiera accostata alla prima colonna di destra: un tralcio vitineo, con grappoli e foglie molto rozzi, serpeggia lungo il fusto della colonnina ove è anche scolpito lo stemma con croce e con quattro rosette dei Monforte di Campobasso, forse donatori della pila. Tale particolare la fa datare posteriormente al sec. XIV, cioè all'epoca in cui detta famiglia comparve nella storia molisana. La vasca, lavorata a petali di margherita, è simile a quella inserita nel muro perimetrale, presso il portale secondario. Merita una menzione particolare il sarcofago trecentesco collocato lungo la navata sinistra della chiesa. Scolpito in travertino, si compone di tre sezioni e grava su quattro basse colonnine dai capitelli con foglie sfrangiate e dalle basi costituite da grossi dadi o da leoni digrignanti. A Santa Maria della Strada lavorarono almeno quattro maestri, appartenenti alla stessa bottega. La Jamison vi ha riconosciuto la mano di Ruggero, Roberto e Nicodemo. Questa ipotesi sembra la più fondata se confrontata con quelle espresse soprattutto dalla Trombetta e dal Carano, che hanno attribuito il lavoro ad una maestranza locale imbevuta di cultura pugliese e campana. In questa tomba vi sono chiari riferimenti alla scuola di Tino di Camaino. Non si vuole escludere l'ipotesi che maestri abruzzesi abbiano esplicato la loro attività alle dirette dipendenze di Montecassino e che quindi abbiano potuto lavorare anche in questo tempio e, di certo, furono monaci benedettini.
 
 
 
L'Officina dello Scrittore
Situata allo Scalo Ferroviario è il luogo ideale per gli scrittori e gli amanti della lettura. Tutta l'area è un'oasi didattica dove crescono piante della macchia mediterranea curate dal geografo Rocco Cirino. All'interno anche una mostra sui fossili dove è possibile ammirare l'ammonite di Matrice, fossile guida risalente a 90 milioni di anni fa.